Imperatori e monaci all’abbazia di Fontana a Taona nell’Alpe pistoiese

Un’abbazia di monaci vallombrosani, scomparsa da secoli, ebbe sede a Fontana Taona nel comune di Sambuca sull’Appennino pistoiese. Il luogo, fresco d’estate e suggestivo, fino a qualche decennio fa (ma penso anche oggi, non posso verificare) era una delle mete preferite di gite festive degli abitanti della piana pistoiese e pratese.
Ha una sua storia importante, ricordata da buon numero di pergamene custodite in un fondo diplomatico dell’Archivio di Stato di Pistoia, e trascritte e pubblicate a stampa tra gli anni ‘80 e ‘90 da Vanna Vignali e a cura di studiosi che allora avevano la passione e il talento di scoprire notizie nuove sulla loro storia “patria”.
L’abbazia ebbe titolo di San Salvatore e fu dotata di vasti possedimenti montani e boschivi e interessi non trascurabili nel territorio delle valli di due Limentre e del Reno, tributari dell’Adriatico, e della Bure e di altri corsi d’acqua del bacino tirrenico.
In origine fu un romitorio accanto a una fonte che prese il nome da un certo monaco di nome Tao. Passò poi sotto la regola cluniacense (secondo una tradizione storica) e tra il 1040 e il 1070 venne unita alla Congregazione dei vallombrosani. Fu sostenuta nella sua solitaria esistenza da imperatori e marchesi che varie volte ne confermarono i mezzi di sostentamento, cioè i beni immobili detti di ‘patronato regio’.
Generalmente pochi monaci abitarono gli edifici ma, secondo un ‘copione’ storico valido anche per Fontana Taona, tra due e trecento aumentarono di numero o furono meno esegui, se si preferisce – ma in generale oltrepassarono di poco la decina di individui. Il governo della comunità fu affidato all’abate, al priore, al camarlingo (economo) e al cellerario (dispensiere). Uno spedalingo invece si occupò dell’assistenza ai viandanti in un difficile itinerario che scavallava gli Appennini e aveva anche delle basi a Pistoia e nel bolognese.
L’abbazia decadde nel trecento per molteplici ragioni tra le quali la solitudine del luogo e vie alternative più comode per lo sviluppo del commercio che era anche marittimo, il declino del potere imperiale e quindi del patronato e soprattutto le infinite guerre tra le famiglie milanesi, bolognesi e i Comuni toscani con conseguenti povertà e spopolamento ...
Verso la fine del secolo pertanto fu giocoforza per i monaci lasciare Fontana Taona e scendere a Pistoia. Il loro ultimo abate (non residente) fu del 1480. Di pari passo le grandi ricchezze terriere, che avevano suscitato la cupidigia di molti, furono incamerate prima da Pio IV e verso il 1570 date in commenda alla famiglia fiorentina dei Pazzi che tenne la “Macchia” fino al 1922. Nel seicento la chiesa abbaziale era ricordata già spianata al suolo.

La storia di Badia a Taona è nota, dicevamo, grazie alle pubblicazioni del passato e ogni tanto viene ‘rinfrescata’ con giornate di studio o con contributi, come il nostro, che riguarda due documenti inediti presenti in archivi non pistoiesi.
Uno di questi è un diploma dell’imperatore Lotario III emanato nel 1136 a Roncaglia di Piacenza durante la seconda campagna italiana. È firmato da Bertaldo “scriptor” della cancelleria e si presenta su una pergamena piuttosto lacera e ingiallita dal tempo. Riprende nel testo precedenti atti del marchese Bonifacio II (1004-1005), degli imperatori Enrico II (1014) e Corrado II (1026-27) e della contessa Matilde (1098 e 1104).
E conferma i possessi dell’abbazia e le ville di pertinenza situati nel “cafagio qui vocatur Bonifacingo” (dal nome del marchese), a Staiano e a Baggio. I beni comprendevano anche un “hospicium scilicet Sancti Michaelis de Renum ... et Colles Barbatuli cum omnibus sibi pertinentibus”. Il vasto comprensorio proprio del monastero era confinato da termini e andava “ab ecclesia Sancti Mamme idque ad Colles Bolagi usque ad Petram Botilariam, ad caput Lentule, ad Serram de Frasino, cum omnibus vallibus et coltibus suis et aquarum decursibus in Lementriam et usque ad Riolam, q. dicitur Canile et ad viam publicam Collinae revertentem usque ad ecclesiam Sancti Mamme ...”.
Alcuni luoghi esistono tutt’ora e sono dei centri noti: Baggio, Lentula, Riola, la Collina, Sammommè ...

Il secondo documento ha carattere più umile e quotidiano. Ricorda come nel 1285 Eugenio di Parisio da Bologna della corte di Sambuca assumesse il nome da monaco di dom Buonaventura e con tale cambiamento, dopo la probazione di un anno, “volens mutare vitam et habitum et deinceps in monastica vita de cetero Deo servire, obtulit et monacavit corporem et animam suam Deo et monasterio Sancti Salvatoris Fontis Thaonis”.
Ovvero fece la sua professione offrendosi al monastero “coram altaris Sancti Salvatoris” alla presenza e sotto l’obbedienza “domini Bartholomei abbatis eidem monasteri rectoris”, ricevente a nome del monastero e di dom. Valentino abate di tutto l’ordine di Vallombrosa. Con il solenne atto dom Bonaventura veniva anche investito dei benefici spirituali e temporali dell’abbazia e dell’ordine al pari degli altri monaci.
La pergamena, corta e concisa, come in genere lo sono quelle delle professioni, fu scritta presso la chiesa abbaziale, presenti dom. Tano di dom. Guglielmo, Bonifacio del fu Magalotto da Pistoia e Giunta del fu Ugolino da Treppio. Rogò lo stesso Bonifacio del fu Magalotto.

Paola Ircani Menichini, 8 giugno 2023 2023.
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